Da Robert Wiene a Wes Anderson: quando il cinema va oltre lo spazio (fisico) Quando gli attori non potevano ancora usare la propria voce, erano i luoghi a raccontare al pubblico il loro mondo interiore
L’uomo abita i luoghi, ma è vero anche il contrario. Lo sperimentiamo ogni qual volta usciamo di casa e la percezione di ogni dettaglio della città, di ogni colonna o via, muta col variare delle nostre emozioni, dandoci l’impressione di starci muovendo in uno spazio indefinito, tra vita e costruzione.
Nel cinema questa connessione viene magnificata dai registi da sempre: per la prima volta 1920, sul set dell’emblematico film mutodi Robert Wiene, dove secondo l’architetto e teorico Juhani Pallasmaa gli angoli, le ombre e le prospettive presentano una «fantastica architettura sospesa tra sogno e realtà». Da questo momento in poi, nel cinema, l’architettura ha assunto un ruolo che va oltre quello di semplice sfondo.
A completamento di ogni progetto, Anderson ricorre all’architettura per definire mondi a metà tra l’ordinario e il fantastico, in grado di rispecchiare con precisione l’anima dei propri protagonisti – bambini fuori dal comune o adulti eterni fanciulli – che appaiono come figure altrettanto reali e immaginarie, tristi, vulnerabili ma al contempo piene di vitalità e forza.
Secondo me devi trovare qualcosa che ami fare e poi farlo per il resto della tua vita. Per me è frequentare la Rushmore»Anderson replica questo approccio lungo tutta la sua produzione, quindi anche nei film degli anni duemila come
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