La recensione di Luca Giannelli del film di William Oldroyd
voto: 4,5 Anni Sessanta, la costa desolata del Massachussetts. Siamo alla vigilia del Natale e il cielo è di quelli che se uno ha deciso di suicidarsi l’idea non gli passa nemmeno per sogno. Sulla strada, una vecchia automobile malmessa, alla guida una ventiquattrenne senza particolari attrattive fisiche che vagheggia qui e là immaginari rapporti sessuali, impiegata in un carcere minorile dove sconta la pena anche un giovane parricida, figlio come lei di un poliziotto.
Come si può ben capire, non è che ci sia molto da ridere in “Eileen”, secondo film di William Oldroyd, tratto dal romanzo omonimo di Ottessa Moshfegh, che firma anche lo script insieme al marito Luke Goebel. L’atmosfera è decisamente cupa, e la protagonista, “Eileen” non è quel che si dice una cinciallegra. Siamo nel 1964 ma la florida America della Great Society johnsoniana sembra qualcosa di un altro pianeta.
La nuova psicologa della prigione dà l’impressione di arrivare invece proprio da un altro pianeta. Sì perché sembra finta : bella, biondissima, si chiama Rebecca e ha l’aspetto di Ann Hathaway, ha studiato a Harvard, ha una decapottabile rossa, è disinvolta, ha modi di fare ricercati e francamente non si capisce cosa l’abbia convinta a trasferirsi dalla California nel duro New England. Ma tant’è.
Questo è quel che succede per più di un’ora, né più né meno, in un’atmosfera sospesa, estenuata, tra sguardi che non si capisce se siano di desiderio o no tra le due donne, con situazioni che in certi momenti ricordano da vicino il senso di attesa tipico dei quadri di un pittore americanissimo e puritanissimo come Hopper.
Dopo “Lady Macbeth”, il britannico Oldroyd di formazione teatrale conferma il suo interesse per le pieghe dell’universo femminile, ma non riesce a scatenare tensione con una regia fin troppo compassata. Dalla storia si tiene come ai margini, confidando troppo nella pazienza di uno spettatore privato alla fine, dopo tanta faticosa attesa, di una qualche ricompensa.
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