Antonio Mantovani poteva essere fermato dopo il primo omicidio, ma continuò a uccidere
Nel 1964 Antonio è entrato in collegio dall’ingresso peggiore, la madre prostituta l’aveva portato lì perché era semplicemente stanca di occuparsi del bambino e voleva rinunciare alla propria maternità. Un fatto traumatico che taluni bimbi superano a fatica, anzi recuperano energie indispensabili per ri-costruirsi da soli, riuscendo ad affermarsi e trovare successo nella vita, come accade anche a orfani capaci di individuare una svolta dopo sofferenze e travagli.
I carabinieri la identificano. Si chiama Carla Zacchi, lavora nella metropoli milanese, si occupa di moda. È sposata con Raffaele Colaianni che venerdì sera era andato da amici a cena per poi non trovare Carla al rientro a casa. L’appartamento era in ordine se non fosse per il citofono con la cornetta rimasta ciondolante e la cena lasciata a metà dalla signora.
Per l’omicidio di Chiara, udienza dopo udienza, emerge che l’imputato aveva cercato un rapporto sessuale con la vittima ma di fronte al rifiuto della donna aveva reagito: prima aveva duramente percosso la donna tanto da farla svenire poi l’aveva strangolata.
Verità o menzogna? Le prove vengono superate, i medici sono ottimisti del percorso di recupero. A fine estate del 1996 i giudici decidono per la sua semilibertà. In fondo, sono passati tredici anni dall’omicidio di Carla. E, davvero, agli occhi dei valutatori, Mantovani sembra un’altra persona, tanto che dall’analisi si riconosce una «ritenuta progressiva strutturazione delle difese e di una conseguente attenuazione del giudizio di pericolosità sociale».
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