La night-life milanese pesa sulle spalle dei lavoratori invisibili Il (caro) prezzo dell’incessante disponibilità di servizi lo paga una categoria che sfugge agli occhi degli altri cittadini
Suona la sveglia e Rascia è pronta a una nuova giornata di lavoro. Si sciacqua la faccia con acqua fredda, mangia un boccone, si mette la giacca ed esce di casa. Fuori è buio: sono le dieci di sera. Ha un’ora per arrivare al McDonald’s di Assago per fare il turno che molti suoi colleghi non vorrebbero mai fare.
Un lavoro si definisce notturno quando delle sette ore lavorative, una parte di queste copre l’intervallo di tempo compreso tra la mezzanotte e le cinque del mattino, in via non eccezionale, per almeno ottanta giorni l’anno. Nel 2019 unmeneghina: dal 2014 la cifra sale da ventitremila a ventiseimila. Trecentotrentuno mila lavoratori e lavoratrici per un totale di sedici miliardi di fatturato.
Negli anni si è provato a regolamentare il lavoro notturno. Il primo tentativo risale al 1902, quando il Partito Socialista Italiano ottenne dal governo regio italiano la, che vietava alle donne i lavori sotterranei, fissava a dodici anni l’età minima per iniziare a lavorare e regolamentava il lavoro femminile nelle fabbriche.
Le professioni che registrano il maggior numero di infortuni durante le ore notturne riguardano autisti, infermieri, personale ospedaliero, guardie giurate e operatori ecologici. Per i lavoratori immigrati, invece, le categorie più a rischio sono quelle dei facchini, seguiti da magazzinieri, addetti alle attività di pulizia e personale sanitario.
Le abbiamo chiesto quali fossero le situazioni più strane o pericolose a cui le è capitato di assistere. «In questi anni ne ho viste di tutti i colori, ma sono sempre riuscita a far fronte alle situazioni. Un ragazzo tossicodipendente una volta ha provato a picchiarmi, mi hanno puntato una pistola finta alla testa, qualche settimana fa un uomo mi ha minacciata con un coltello da cucina. Insomma, queste cosette qua.
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